La memoria delle mani
Certo, la congiuntura economica, l’enorme concorrenza, la possibilità di svolgere questo lavoro “a bassa qualità” usando, magari, materiali scadenti o non certificati ci mettono la loro a mettere in difficoltà il nobile lavoro dell’imbianchino (tanto nobile che in alcune parti del Bel Paese, gli imbianchini vengono chiamati ancora “pittori”),
L’imbianchino, l’idraulico, il piastrellista o il falegname,
trovano e coltivano il proprio parco utenti grazie alla rete di contatti e
relazioni intessuta in anni di attività sul proprio territorio.
In un passato non molto
lontano , specie nelle aree mediterranee a sud dell’Europa, era consuetudine
utilizzare la calce idrata impastata ad acqua o il grassello di calce
per imbiancare, ovvero “scialbare” le pareti esterne (e non
solo) delle abitazioni (scialbatura: dal latino “exalbare” che significa “imbiancare”
o “intonacare”). Questo veniva fatto per svariate ragioni.
Innanzitutto per l’economicità e l’immediata reperibilità di questo materiale
ottenuto a partire dalla cottura delle pietre calcaree in apposite
fornaci. Altre qualità erano naturalmente il potere disinfettante e la discreta
impermeabilità e resistenza agli agenti atmosferici.
Uno dei mestieri che ha visto crescere la propria
professionalità nel tempo è quello dell’imbianchino che oggi è chiamato anche
tinteggiatore e/o decoratore. Negli ultimi cinquantanni ha modificato
completamente il suo lavoro, sia per le nuove tecniche nel tinteggiare e sia
per le pitture e/o vernici da applicare ai vari intonaci dei muri interni ed
esterni delle nostre abitazioni. Il grande pennellone utilizzato una volta dai
vecchi imbianchini ha lasciato spazio ad altri attrezzi, quali: pennelli,
pennellesse, rulli, pistole a spruzzo, smerigliatrici e raschietti. In tutti i
paesi del mezzogiorno i muri interni ed esterni delle case si “incalzineva” (dare
il bianco con la calce) sia per pulizia delle stesse che per disinfettare gli
ambienti, data la presenza di tanti animali domestici e di lavoro.
La calce, acquistata da “l'imbianchein” (imbianchino)
in zolle di media pezzatura, veniva “curata” (preparata allo stato liquido) con
notevole anticipo e diluita volta per volta secondo le esigenze. In genere
erano le donne che la domenica pomeriggio provvedevano ad imbianchire le parti
più usate della casa (cucina, ripostiglio viveri, luogo dove si riponevano i
vasi da notte, zoccolatura esterna dell’uscio), togliendo la calce residua
disseminata qua e là con acqua e“varecheina” (varechìna).
Per le facciate esterne ed i muri interni
si chiamava “l'artesta” (l’imbianchino). In genere si imbiancava
d’estate, quando l’aria era più calda, agevolando così l’asciugatura della
calce. Le famiglie durante l’inverno avvisavano “al mastar” scegliendo
nei limiti del possibile quello
che sporcava di meno per togliere dal pavimento e dalle porte meno calce
possibile schizzata. La densità della calce applicata era stabilita volta per
volta in funzione del grado di sporcizia e della distanza da terra del muro,
per evitare continue inzuppate del pennello nella tinozza della calce. Un
contributo importante era dato dai pennelli, legati a delle canne lunghe e
corte, che in funzione dello spessore della setola e della sua morbidezza,
stendevano al meglio la calce sui muri, dove esisteva altra calce di anni
precedenti.
A lavoro ultimato e dopo che
l’imbianchino raccoglieva secchi, tinozze e pennelli, le donne di casa
iniziavano immediatamente a pulire, prima che la calce si indurisse, lavando
diverse volte con acqua fresca e varechina. Prima che arrivasse il buio
della sera, la stanza doveva essere pronta, anche di quei pochi mobili, che
nella mattina erano stati depositati in strada e coperti con delle lenzuola
bianche. Nelle strade aleggiava un odore di pulito che a quei tempi si
identificava con l’odore di calce
e varechina.
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